16 Febbraio 2011 | Autore: Pantaleo | Salento
I luoghi della Messapia meridionale
Articolo della Guida Archeologica ” Antica Messapia “
Vaste (Poggiardo)
L’insediamento messapico di Vaste sorgeva sulla propaggine della serra di Poggiardo e si sviluppava nella pianura circostante ad una quota media di 100 metri s.l.m. La prima fase di occupazione dell’area è riferibile all’età del Bronzo medio e finale (XIV secolo – XI secolo a.C.), periodo in cui vi è attestata la presenza di un villaggio a capanne.
Nel corso dell’età del Ferro (VIII – VII secolo a.C.) si è sviluppato, su un piccolo pianoro sopraelevato, corrispondente all’attuale Piazza Dante, un abitato a capanne dalla planimetria circolare. Si trattava di una sorta di acropoli che, dall’alto dei suoi 107 metri s.l.m., dominava la pianura circostante.
La fase arcaica (VI secolo a.C.) è documentata da resti di capanne con fondazioni in pietra e pavimenti in battuto di calcare, da una fornace e da un luogo di culto la cui area è stata utilizzata, in età classica (V secolo a.C.), come necropoli composta da tombe a sarcofago e da numerosi depositi funerari.
Le testimonianze di massima espansione di Vaste sono riferibili all’età ellenistica (IV- III secolo a.C.), a seguito probabilmente di un incremento demografico. La città viene dotata di una possente cerchia muraria, lunga 3.350 metri, che delimita un’area urbana di 78 ettari di cui la maggior parte è rimasta libera da strutture abitative.
Le mura sembrano costruite in due differenti fasi. Nella prima si presentano con una struttura larga all’interno circa 4 metri, realizzata a doppia cortina di pietre massicce non squadrate, con riempimento di pietre, tegole e terra; all’esterno della struttura vi è un rivestimento con muro a blocchi squadrati, ben messi in opera. In una seconda fase – all’inizio del III secolo a.C. – la struttura viene rivestita all’esterno, almeno lungo i lati settentrionale ed orientale, da un muro largo più di tre metri, con grandiblocchi squadrati.
L’insediamento ellenistico era attraversato da assi stradali ortogonali lungo i quali erano allineati edifici e gruppi di tombe monumentali.
All’interno della sua ampia superficie racchiusa dalle mura vi erano aree destinate alle abitazioni, a luoghi di culto, ad edifici artigianali, a necropoli e zone adibite al pascolo e all’attività agricola. Tra le evidenze architettoniche più rilevanti è da segnalare un edificio dalla particolare planimetria ad L, costituito da una serie di ambienti allineati che si affacciano su una vasta corte centrale. Per ciascuno dei vani è stato possibile riconoscere, oltre a funzioni residenziali da riferire alla sfera privata, anche quelle cerimoniali e di culto, pertinenti una struttura aristocratica legata a livelli sociali di rango elevato e a gruppi familiari dominanti.
Intorno all’acropoli si sviluppava – inoltre – una fascia di abitazioni la cui minore qualità architettonica denotava un’appartenenza a gruppi sociali intermedi, legati allo sfruttamento agricolo del territorio, a cui sono da riferire anche dei piccoli nuclei di tombe disposti talvolta a notevole distanza dal centro urbano. A Vaste, inoltre, il quadro sociale comprendeva anche ceti servili, come testimonia il rinvenimento di alcune epigrafi.
La città è stata distrutta a seguito dell’invasione dell’esercito romano negli anni 267-266 a.C, anche se le evidenze provenienti dagli scavi dimostrano una continuazione di vita dell’abitato fino all’età tardo antica (inizi VII secolo d.C.).
Castro
L’insediamento antico di Castro si sviluppava su un promontorio roccioso a circa 100 metri s.l.m. Il sito era ubicato lungo il percorso della via “Sallentina”, sull’itinerario paracostiero che collegava Leuca a Otranto.
Alcune evidenze archeologiche sono visibili sul Pizzo c.d. Mucurune, in località Muraglie e Capanne. Le tracce conservate sono relative al circuito murario, che racchiudeva un’area di circa tre ettari corrispondente all’attuale centro storico.
La struttura difensiva, risalente alla seconda metà del IV secolo a.C., è stata realizzata con grandi blocchi squadrati, in calcarenite locale, posti a secco in assise alternate di testa e di taglio. La fortificazione presentava, probabilmente, almeno due filari affiancati. Ad una fase successiva è da riferire la realizzazione di un avancorpo, quasi un bastione, che si poggia al muro di cinta, aumentandone lo spessore e rendendo più sicura la difesa della città. Risale ad una terza fase, invece, il rivestimento del muro meridionale dell’avancorpo con un altro muro a blocchi squadrati, probabilmente
di rinforzo. Di notevole interesse si è rivelato il rinvenimento, nel corso di un recente scavo archeologico, di una metopa decorata da un triglifo, attribuibile ad un tempio che sorgeva – presumibilmente – sulla sommità del promontorio.
L’ipotesi della presenza di un luogo di culto, sulla acropoli di Castro, è stata avvalorata dall’ancor più recente scoperta (effettuata nel maggio del 2008 dagli archeologi Amedeo Galati ed Emanuele Ciullo) di una statuetta bronzea raffigurante Atena Iliaca con elmo frigio.
Il tempio, quindi, sarebbe attribuibile al culto di Atena, strettamente connesso alla navigazione e ai luoghi del mare che rappresentano importanti punti di riferimento,come gli stretti e i promontori (v. infra santuario di Grotta Porcinara).
Castrum Minervae: tra Greci e Messapi
Mostra Archeologica permanente allestita nelle saledel Castello Aragonese di Castro
La Mostra Archeologica “Castrum Minervae: tra Greci e Messapi” è allestita nelle sale del Castello Aragonese di Castro città.
L’accesso al castello è posto sul lato meridionale della struttura (via S. Dorotea), all’interno dell’acropoli fortificata, poche decine di metri ad occidente della centrale Piazza Perotti. Dal piccolo portone si accede in un cortile di forma trapezoidale, su cui si affacciano la maggior parte degli ambienti.
Il percorso si snoda dalla sala di levante (B1), sul lato destro dell’atrio, dove sono esposti reperti risalenti ad epoca messapica, romana e medievale, rinvenuti a seguito delle indagini archeologiche svoltesi a Castro nell’ultimo decennio. Si tratta per lo più di frammenti di suppellettili di ceramica, di anfore da trasporto e di alcuni blocchi in calcarenite con iscrizioni messapiche.
Questi documenti epigrafici probabilmente appartenevano ad un complesso santuariale dell’abitato ellenistico di Castro (IV secolo a.C.), che man mano sta venendo alla luce grazie agli ultimi scavi archeologici.
La visita prosegue nell’ala orientale del cinquecentesco maniero; attraverso uno stretto corridoio si accede nella sala B2, ossia un bastione di contrafforte costruito per resistere all’attacco e al fuoco nemico portato da nord-est. Nel piccolo ambiente rettangolare è stato collocato un plastico, che restituisce un’ipotetica immagine dell’insediamento di Castro nel IV secolo a.C.
Nella sala posta a nord del cortile, denominata A1, è possibile visionare un breve filmato dal titolo “Grotta Romanelli e la Preistoria del Salento”, che focalizza l’attenzione sui cambiamenti morfologico-climatici e sulla frequentazione antropica dal Paleolitico medio (circa 70.000 anni fa) all’età del Bronzo (3000 anni fa) nel Salento sud-orientale, con particolare riferimento al comprensorio di Castro.
Il cammino nella storia procede negli altri ambienti di tramontana (A2-A5), voltati a botte e dotati di ampie finestrature con fumanti che si collegano al fronte esterno del castello.
Dalla sala A5 si entra nella torre circolare, costruita per permettere la difesa del maniero da un eventuale attacco nemico da nord-ovest. A tal fine era preposta una batteria collocata nella parte più alta della struttura.
Nella sua cortina muraria sono ancora visibili le postazioni per il tiro di fucileria.
Il percorso prosegue nelle sale di ponente – ad ovest del cortile – dove è presente un grande ambiente rettangolare con volta gotica (C1), probabilmente risalente al periodo normanno.
Si consiglia di concludere la visita accedendo, tramite una stretta scala, al terrazzo lastricato del castello, da cui si può dominare con lo sguardo un panorama mozzafiato, costituito dalla grigia falesia che si immerge a strapiombo nel mare di un azzurro intenso e, in particolari condizioni atmosferiche, dalle coste montuose e rocciose dell’Epiro e della Grecia.
Montesardo
L’insediamento fortificato – sconosciuto alle fonti antiche – era ubicato nell’area occupata dal moderno centro di Montesardo, ad una quota media di 186 metri s.l.m. Dall’altura si domina un vasto settore di territorio che spazia dalla serra di Vaste a nord-est, al mar Adriatico ad oriente fino al promontorio iapigio a sud, sede di un vivace porto e di un santuario emporico.
Dell’insediamento dell’età del Ferro sono state rinvenute numerose evidenze archeologiche, che constano per lo più di materiale ceramico ritrovato in superficie. La fase arcaica è scarsamente documentata, mentre è ben attestata l’età ellenistica, ossia il periodo di maggior sviluppo dell’abitato datato tra la fine del IV e il III sec. a.C. A questa fase è da riferire la realizzazione della cinta muraria in blocchi squadrati di grandi dimensioni, di cui si conservano scarsi resti al di sotto delle mura settentrionali del cinquecentesco Castello Romasi.
Il tratto di mura conservato, orientato NO-SE, si sviluppa per una lunghezza massima di 10 metri, per un’altezza di 1,60 metri, ed è realizzato con blocchi di calcarenite locale messi in opera a secco. I blocchi poggiano direttamente sul banco di roccia affiorante e, laddove esso non segue un andamento orizzontale, è stato creato un iano regolare con l’aggiunta di blocchi di dimensioni minori. Ad una distanza di 10 metri, in direzione est, è visibile un altro filare realizzato con blocchi che presentano le stesse caratteristiche; poco oltre, al di sotto di uno dei bastioni del castello, si conservano due filari di dimensioni minori, realizzati con blocchi tagliati e riutilizzati nella fondazione del bastione. Sulla base dell’analisi delle fotografie aeree e dei pochi dati archeologici a disposizione è stata ipotizzata la lunghezza complessiva del tracciato murario, che potrebbe aggirarsi intorno ai 3600 metri.
Un importante rinvenimento – risalente al 1953 – è relativo ad una tomba ricavata nel banco di roccia, che aveva le pareti interne decorate con una fascia composta da una lista nera tra due rosse. Al suo interno era conservata gran parte degli oggetti di corredo, costituito da vasi in stile di “Gnathia”, a figure rosse e a vernice nera, oltre che da alcuni manufatti in bronzo.
Per quanto concerne l’articolazione interna della città antica, la sola documentazione esistente è riferibile a strutture d’abitato in blocchi squadrati, di fase classica ed ellenistica (V–III secolo a.C.), oggetto di indagine della Soprintendenza Archeologica negli anni Novanta.
Vereto (Patù)
L’abitato messapico di Vereto sorgeva sull’omonima serra (140 m. s.l.m), in una posizione strategicamente ottimale da cui si domina l’intera piana sottostante che si stende a Nord/Nord-Est, un ampio specchio di mare verso Sud e la costa ionica da Torre Vado sino a Santa Maria di Leuca.
La presenza di ceramica d’impasto dell’età del Ferro e il rinvenimento di resti di capanne attestano una frequentazione a partire dal IX sec. a.C.
La fase arcaica è documentata dalla presenza di frammenti di ceramica di produzione locale e da alcune iscrizioni in lingua messapica incise su cippi in calcare provenienti da contesti funerari.
In età ellenistica l’area dell’insediamento venne cinta da mura in grandi blocchi isodomi di calcare. Il tratto maggiormente conservato è visibile, per un’altezza massima di quattro filari, in corrispondenza del limite sud-occidentale dell’abitato antico
I blocchi di calcare sono messi in opera alternativamente di testa e di taglio, secondo una tecnica costruttiva già nota in ambito messapico.
Alcune indagini archeologiche, effettuate lungo la via vicinale Uschia Pajare, hanno riportato alla luce parte delle imponenti fondazioni della cinta muraria. Si tratta di un muro pieno largo circa 4 metri, costituito da tre file di blocchi squadrati posti di testa e di taglio; lo spessore e la lunghezza dei blocchi risultano costanti (m. 0,32 x 1,57), la larghezza varia dai m. 0,90 dei blocchi di taglio ai m. 0,50 dei blocchi di testa.
All’interno della cinta muraria si sviluppavano nuclei di abitato, che si alternavano con zone libere destinate all’agricoltura e al pascolo. Nell’area archeologica veretina si rinvengono numerosi blocchi, spesso riutilizzati nei muri a secco, e strutture ancora parzialmente interrate, che potrebbero appartenere a edifici messapici costituiti dai tipici ambienti a pianta quadrangolare con fondazioni in blocchi squadrati, alzato in spezzoni lapidei e copertura in tegole.
L’approdo di Torre San Gregorio
L’approdo di riferimento di Vereto era Torre S. Gregorio, suggestiva baia protetta dai venti dei quadranti settentrionali, orientali e meridionali e ben fornita di sorgenti.
Le vestigia archeologiche sono visibili alla base del ripido pendio che porta all’insenatura. Si tratta di due tratti di fondazioni o camminamenti di servizio all’approdo, entrambi in blocchi di carparo. Il primo è ubicato sul declivio, perpendicolarmente alla linea di costa, lungo il costone meridionale del canalone che continua sotto il livello del mare. Il secondo allineamento è parallelo alla linea di costa. Il tratto conservatosi è costituito da cinque conci su due filari non uniformi. Circa sei metri più a sud-ovest si nota il “negativo” di un blocco cavato o asportato, e un altro blocco isolato, disposto di taglio e con lo stesso orientamento del tratto descritto. Potrebbe trattarsi dei resti smembrati di un allineamento molto più consistente, che fiancheggiava la riva meridionale dell’insenatura seguendo un percorso più o meno rettilineo a quota 2,5 metri s.l.m. Procedendo verso ovest, cioè verso la punta del promontorio, si incontra un pozzo di acqua dolce, mentre una sorgente si trova presso la riva.
La baia dovette essere frequentata, a partire dall’età messapica, da navi che percorrevano la rotta Grecia-Italia attraverso Corcira, il basso Adriatico e il Capo Iapigio. Il piccolo porto messapico subì delle profonde trasformazioni in età tardorepubblicana, quando furono realizzate alcune strutture di servizio per l’approdo, datate al II sec. a.C.
Capo di Santa Maria di Leuca. La Grotta Porcinara
La Grotta Porcinara – che si apre sul versante orientale di Punta Ristola (Capo di Leuca) – ospitava un santuario costiero che ha rivestito un ruolo di primissimo piano nell’ambito delle manifestazioni cultuali messa piche e dei rapporti commerciali con il mondo ellenico.
Nel santuario era venerata una divinità maschile – Zis – rappresentata con la folgore, alla quale si rivolgevano i naviganti in cerca di protezione per la loro attività: il dio infatti, secondo gli indigeni, era in grado di dominare le forze atmosferiche e di rendere propizia la navigazione.
Zis è il teonimo messapico che corrisponde al greco Zeus. Il nome, nelle iscrizioni, è associato all’aggettivo Batas (saettante). I fedeli giungevano presso l’area antistante la grotta-santuario direttamente dal mare, grazie alla realizzazione di scalinate e terrazzi tagliati nella roccia.
Nelle prime fasi di frequentazione del luogo di culto (fine VIII secolo a.C.) venne impiantato un deposito votivo, in uso fino alla metà del VI secolo a.C., che conservava al suo interno resti di sacrifici.
In piena età arcaica le attività di culto sembrano spostarsi all’interno della Grotta Porcinara. Sulle sue pareti sono state individuate ben 27 tabelle, con iscrizioni in greco e in latino, in cui compaiono dediche, ringraziamenti, richieste di protezione e di fortuna rivolte alla divinità.
Il santuario – quindi – localizzato lungo l’importante rotta che dall’Oriente portava verso la Magna Grecia, era un punto di riferimento per coloro che praticavano attività legate al mare, la cui buona riuscita era sottoposta alla benevolenza degli dei.
Il santuario costiero è stato frequentato in un arco cronologico compreso tra l’VIII sec. a.C. e la fine del II sec. d.C. Nel passaggio dall’età messapica a quella romana il dio messapico Batas divenne Iuppiter Batius.
La Chiusa alla Masseria Fano (Salve)
Le diverse fasi di occupazione del pianoro della Chiusa, presso la Masseria Fano (Comune di Salve), sono state ricostruite grazie alle indagini sistematiche condotte da un’équipe di archeologi australiani tra il 1987 e il 1991. La documentazione acquisita ha permesso di verificare un abbandono del sito agli inizi del XIV sec. a.C. ed una nuova occupazione, circa mezzo millennio dopo, durante le fasi iniziali dell’età del Ferro (poco prima del 900 a.C.).
I reperti fittili riferibili a questa seconda fase di frequentazione intensiva del pianoro sono quasi esclusivamente di produzione locale. Si tratta di ceramica ad impasto, figulina e della cosiddetta “matt-painted”, decorata con fasce dipinte. Sono stati rinvenuti anche pochi reperti di importazione, tra cui frammenti di grandi contenitori – a volte decorati con listelli o cordoni incisi – e di vasi usati per attingere il vino, databili tra la prima metà dell’VIII e il VII secolo a.C. Il manufatto più importante rinvenuto sul pianoro è un disco o piatto di calcare frammentario, decorato con file di triangoli incisi a bassorilievo, datato all’VIII secolo a.C. e utilizzato probabilmente come offerta in un contesto cultuale.
L’insediamento venne abbandonato una seconda volta tra la fine VIII – inizi VII secolo a.C. per essere occupato – circa 150 anni dopo – nel corso dell’età arcaica (alla metà circa del VI secolo a.C.). A questa fase di frequentazione del sito è riferibile l’imponente cinta muraria, che aveva una lunghezza di 650 metri e racchiudeva una superficie di circa 3 ettari.
Le indagini archeologiche hanno consentito di verificare che le mura erano – in alcuni tratti – larghe oltre sei metri, costituite da un doppio paramento in blocchi calcarei e da un riempimento interno di pietrame.
Nella cinta muraria si apriva almeno una porta (ad Ovest), protetta a NO da un massiccio bastione con andamento curvo, accanto alla quale probabilmente era stato collocato un altare. Il corridoio d’ingresso dell’insediamento fortificato presentava uno spesso strato di pietrisco, sotto il quale vi era un battuto stradale in eccellente stato di conservazione.
Resti riferibili alla strada sono stati individuati anche all’interno dell’abitato. L’abbandono della porta è stato datato alla fine del VI – inizi V secolo a.C. All’età arcaica è da riferire un louterion, ossia un bacino di terracotta su alto piede usato sia per funzioni religiose (riti legati a sacrifici) che profane, probabilmente di produzione corcirese (Corfù).
Di notevole interesse appare il rinvenimento di materiali ceramici iscritti, tra cui un alfabetario arcaico su un vaso di produzione locale, che potrebbe attestare una sua funzione cultuale (offerta o dedica).
I reperti diagnostici più recenti sono datati al 480/70 a.C., decennio in cui gli archeologi ipotizzano l’abbandono dell’insediamento. Si tratta di frammenti fittili, importati dalla Grecia e dalla Magna Grecia, fra i quali vi è un frammento di parete di lekythos (piccolo contenitore di profumo) che reca dipinta una figura sdraiata in un contesto di simposio con altri personaggi, interpretata come Dioniso in compagnia di altri dei. Tra le ipotesi avanzate riguardo al definitivo abbandono dell’insediamento dei Fani, la più plausibile appare la relazione con i rapporti conflittuali tra Messapi e Tarantini che hanno caratterizzato i primi decenni del V secolo a.C. Le diverse campagne di scavo effettuate alla Chiusa – tuttavia – non hanno restituito prove dirette di distruzioni violente dell’abitato.
Secondo gli archeologi Descoeudres e Robinson, gli abitanti dei Fani avrebbero deciso di lasciare l’insediamento semplicemente perché il piccolo terrazzo non era più adatto alle necessità di un insediamento urbano.
Il pianoro, inoltre, non offriva più la protezione necessaria contro le efficienti armi del tempo. Il sito più grande e meglio difendibile – Vereto – si trovava solo a pochi chilometri a sud-est dei Fani. L’ipotesi più verosimile è, quindi, che gli abitanti della Chiusa, assieme a quelli di altri simili piccoli insediamenti, si siano trasferiti presso l’insediamento posto sulla Serra di Vereto.
Ugento
L’abitato di Ozan – la più importante città della Messapia meridionale – era ubicato sulla sommità di una serra, a 107 metri s.l.m. e distava circa 6 km dal mar Ionio.
La città, a partire dal IV secolo a.C., venne dotata di un tracciato murario di ampia estensione, testimonianza eloquente della potenza economica e militare raggiunta da Ugento in età ellenistica.
A ridosso del perimetro difensivo sono state individuate ben quattro necropoli, inquadrabili cronologicamente dal VI secolo a.C. al II secolo a.C.
Le tombe di età messapica sono generalmente del tipo a cassa di lastroni e a sarcofagi monolitici. Alcuni gruppi di sepolture, rinvenuti in zone più interne della città, si distinguono per un notevole prestigio e sontuosità. Degna di nota è la cosiddetta Tomba dell’Atleta, del tipo a “semicamera”, che si caratterizza per le pareti affrescate e un ricco corredo di chiara influenza ellenica. Si tratta, in questo caso, di una sontuosa testimonianza del costume funerario messapico e di un importante documento di conoscenza della cultura artistica e materiale di Ugento in età arcaica e classica. Secondo Lo Porto la sepoltura è stata realizzata da “maestranze educate alla pratica architettonica greca, in un periodo ormai di intensa penetrazione culturale ellenica nel mondo indigeno del Salento”.
Il basamento è caratterizzato da sette blocchi parallelepipedi rettangolari affiancati, con un incavo di forma rettangolare da interpretare come il piano di deposizione. Le fiancate sono realizzate con lastroni ortostati direttamente poggianti sul basamento, ben levigati nel lato interno per permettere alle maestranze di decorarle con dipinti
Sulle pareti si conserva ancora lo strato preparatorio di intonaco a calce bianca, sul quale si dispongono i moduli decorativi che corrono per tutto il perimetro della tomba. Dal basso si nota una larga fascia di colore rosso, una sottile fascia risparmiata, una lista di color blu marginata da due bordi di colore rosso. La parte superiore delle pareti è decorata da una fascia di cm 65 delimitata da due sottili linee rosse, all’interno della quale vi è una successione regolare di bende dalle estremità arrotondate, da cui pendono triplici nastri ondulati ricadenti verso il basso.
La tomba era coperta con due lastroni – di grandi dimensioni – disposti a spiovente.
Il corredo degli inumati è cronologicamente collocabile tra l’ultimo quarto del VI sec. a.C. e il primo del V sec. a.C., periodo di realizzazione della struttura litica, ed appartiene ad un individuo maschio di circa trent’anni.
Il più recente, datato agli inizi del IV secolo a.C. è attribuibile ad un ragazzo di circa quindici anni.
Nei corredi va sottolineata la convivenza di elementi di fattura messapica (“trozzella” e kalathos) con bronzi di importazione peloponnesiaca (oinochoai, bacino su base tripode e olpe) e corinzia (hydria). Sono presenti, inoltre, reperti di provenienza attica, come una lekythos, un’hydria a figure rosse e una serie di vasetti a vernice nera. La Tomba dell’Atleta è stata così denominata per la presenza – al suo interno – di due strigili in bronzo, un alabastron e due aryballoi, oggetti correlati alla consuetudine di praticare attività agonistiche, particolarmente diffusa nelle classi più abbienti della società ellenica e delle civiltà – come quella messapica – da essa profondamente influenzate. Differenti per tipologia e ricchezza sono le sepolture che caratterizzano la necropoli di località Sant’Antonio, costituita da una trentina di tombe a fossa, scavate nel banco roccioso affiorante e originariamente ricoperte da lastroni. In alcuni casi le loro pareti risultavano intonacate e caratterizzate da una decorazione dipinta a fasce rosse e blu. La maggior parte delle sepolture ha restituito corredi di IV-III sec. a.C. Esse fiancheggiano un breve tratto della cinta muraria messapica di Ugento che, con il suo andamento, ha condizionato lo sviluppo della necropoli.
La cinta muraria di Ozan è stata ricostruita a seguito di studi e ricerche recenti, basati sia su saggi archeologici, effettuati all’interno del centro antico, che sull’analisi di fotografie aeree, sulla restituzione fotogrammetrica e sulla georeferenziazione.
Il circuito murario di Ugento costituisce l’evidenza archeologica più rilevante dell’abitato messapico su cui insiste, in gran parte, la cittadina moderna. Lunghe circa 4.900 metri, racchiudono una superficie pari a circa 145 ettari. Si ipotizza che erano ben undici le porte d’ingresso che si aprivano nel tracciato, che corrispondevano ad altrettante vie di comunicazione tra Ugento e i centri limitrofi. La cinta muraria era dotata di torri di avvistamento a pianta quadrata, posizionate in punti strategici come gli angoli del circuito e i punti di ingresso alla città. All’esterno si trovava un fossato
difensivo, probabilmente utilizzato anche come cava estrattiva dei blocchi di calcarenite da impiegare nei paramenti esterni ed interni.
Le mura erano formate da due cortine a grandi blocchi parallelepipedi di calcare locale disposti per lungo nella cortina interna e alternativamente per lungo e di testa in quella esterna. In base alle caratteristiche strutturali si ipotizza che il circuito risalga al IV secolo a.C., pur in assenza di datazioni precise.
Allo stato attuale si conserva circa la metà dell’antico percorso murario, in particolare nella parte settentrionale, in quella orientale e in quella sud-occidentale dell’abitato, ovvero in settori della città non interessati dalla forte espansione edilizia avvenuta tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso.
Nel 1961, infine, a seguito di uno scavo per le fondamenta di una casa nel centro storico, è stata scoperta una statua bronzea identificata con lo Zeus stilita, considerata la più alta espressione artistica della civiltà messapica e l’esempio massimo dei contatti e degli scambi tra i Messapi di Ugento e i Magnogreci di Taranto. L’opera (alta 74 cm), attribuita ad uno scultore greco probabilmente attivo a Taranto, è stata datata intorno al 530 a.C. e ritrae il dio nell’atto di brandire la folgore con la mano destra e di stringere le zampe di un’aquila nella sinistra. Nello stesso contesto è stato
rinvenuto un capitello dorico in calcare, elemento della colonna votiva sulla quale poggiava, il cui abaco presenta la tipica decorazione messapica a rosette. L’opera si caratterizza per il volto eccezionalmente rifinito – in particolare nella pettinatura e nei dettagli della barba e delle corone – che contrasta con i sobri volumi del suo fisico.
Per quanto riguarda il contesto di provenienza si è ipotizzato – sulla base di confronti con altri ambiti cultuali messapici – un recinto a cielo aperto, con cippi e stele recanti dediche disposti attorno alla statua, dove i sacerdoti e i fedeli effettuavano libagioni e offerte.
La Collezione Colosso
La Collezione Colosso è custodita ad Ugento (Le) nelle sale dell’omonimo palazzo nobiliare. La raccolta, iniziata dal Barone Colosso e continuata dal defunto Adolfo Colosso, consta di 794 reperti che si inquadrano cronologicamente tra il VI secolo a.C. e l’età altomedioevale.
A questi si aggiungono esemplari di età moderna quali armature ed armi, palle di cannone, ecc. I reperti databili dal VI secolo a.C. all’età ellenistica rappresentano le classi di materiali diffuse nel territorio della Messapia. Le trozzelle coprono l’intero arco cronologico di diffusione della forma ceramica.
Le ceramiche di importazione greca sono rappresentate da lekythoi attiche. Alla “ceramica di Gnathia” sono riferibili otto reperti. Di buona qualità è il grande skyphos, la pelike, le due oinochoai. Nella classe ceramica a vernice nera si inseriscono piatti, skyphoi, tazze biansate e monoansate, coppette e brocche. Le lucerne sono presenti nella raccolta in numero elevato con tipi di tradizione ellenistica, italica e romana. Altra suppellettile in terracotta è costituita dai tintinnabula, da alcune terrecotte femminili e da un elmo a pileo fittile, reperto piuttosto raro in ambito messapico.
Sono presenti reperti scultorei tra cui una testa di impronta scopadea, un frammento ad alto rilievo raffigurante un guerriero probabilmente a cavallo, un torso maschile in pietra con braccia sollevate verso l’alto ed una clava in marmo riferibile ad una statua colossale di Ercole.
Particolare rilievo assumono i capitelli tra cui un capitello dorico con abaco decorato da rosette, strettamente confrontabile con il capitello su quale era collocata la statua dello Zeus stilita. Fra gli oggetti miniaturistici sono presenti kantharoi, oinochoai, brocchette, pelikai, olpai, e situle.
Si segnala, inoltre, la presenza di epigrafi, sia in lingua messapica che latina.
Articolo della Guida Archeologica ” Antica Messapia ”
Popoli e luoghi del Salento meridionale nel I millennio a.C.
A cura di Marco Cavalera e dell’ Associazione Culturale Archès .
Scarica la Guida Archeologica in PDF
Info & Contatti
ASSOCIAZIONE CULTURALE ARCHE’S
Via Carmignani 14, Lucugnano di Tricase (LE) tel 327.8410214