A seguito della Guerra greco-gotica (535-553) combattuta in Italia tra Bizantini e Ostrogoti, l’imperatore d’Oriente Giustiniano — vittorioso sull’ultimo re ostrogoto Tèia — emanò nel 554 la famosa Prammatica Sanzione: l’Italia diventava una provincia dell’Impero Romano d’Oriente. Per più di mezzo millennio la civiltà bizantina penetrò in ogni settore della vita, della società e della cultura nella nostra penisola permeandone spiritualità e comportamenti.
Fra tutti i territori italici, il Salento fu di sicuro il più “bizantino”, ovvero quello che in maniera più autentica assimilò i valori e le idealità più profonde del vicino Oriente; né poteva essere altrimenti, soprattutto se si considera la posizione, geograficamente strategica dell’antica Messapia nel cuore del Mediterraneo, ponte tra Occidente e Oriente, crocevia di tutti i passaggi e le rotte percorribili nel mondo allora conosciuto: produzione di codici e manoscritti, arte musiva e dell’affresco parietale, scienze e filosofia, monachesimo cenobitico e criptologico, furono solo la punta di un iceberg, epifenomeno di una realtà umana e sociale ben più ampia e profonda che affondava le radici nella stessa dimensione ontologica della salentinità.
E quando poi in Italia piombarono popoli stranieri e famelici eserciti d’Oltralpe, e i Normanni completarono nel 1071 la conquista dell’intero Mezzogiorno, ancora per secoli — ancora per oltre mezzo millennio — la civiltà bizantina continuò a esercitare fortemente la propria influenza nel Salento.[...]
Conducendo una vita ascetica e contemplativa, in un primo momento occuparono le grotte presenti lungo le coste, poi si allontanarono dai centri abitati e adibirono a chiesette e dormitori le grotte naturali disseminate nelle campagne; vennero scavati anfratti e scarpate per ottenere delle cripte e le pareti di questi ipogei terminavano sul pavimento con dei ripiani (subsellia) che servivano per sedere e per dormire: una vita lontana dal mondo e dagli uomini, a diretto contatto con la natura, consumata tutta quanta nella preghiera e nell’ascesi, fra stenti indicibili.
Scendendo nelle cripte italo-greche, per un attimo ci lasciamo alle spalle il tran tran della vita di oggi e ci immergiamo in un mondo arcano per noi inconcepibile, in una dimensione che sembra non appartenerci: eppure anche in quel mistero affondano le nostre radici. Senza contare il bisogno spirituale di pace che da tempo sembra coinvolgere, se pure in forma vaga e confusa, l’uomo contemporaneo.
Fra le aree salentine investite dal soffio innovatore della spiritualità bizantina, non poteva ovviamente mancare Salve con il suo vasto territorio esteso dalle immediate propaggini dell’Acra Iapigia alle antiche terre macchiose e paludose del litorale ugentino, fino alle Serre dell’entroterra dai dolci declivi.
D’altra parte la direttrice fondamentale lungo la quale si svolse il flusso dei religiosi provenienti dalle opposte sponde dell’Adriatico, nonché dal bacino greco e dal vicino Oriente, partiva necessariamente dal displuvio tra Adriatico e Ionio per inoltrarsi gradualmente nelle terre salvesi. C’è un luogo, però, più remoto e solitario, lontano dal centro abitato, i Fani, dove l’occhio scivolando sui filari interminabili delle viti si perde negli orizzonti del mare, dove acque sorgive sgorganti direttamente dalla roccia scorrono fresche lungo un suggestivo canale naturale coperto da canneti perenni, dove arte e storia, mito e leggenda, natura selvaggia e archeologia, nobiltà e schiavitù, passato e presente, sacro e profano, si abbracciano in armonie celesti.
Ai Fani anche lo spirito più ribelle si placa, al pensiero che colà Messapi e Greci per lunghi secoli hanno vissuto coltivando la terra ed erigendo ciclopiche mura a difesa delle proprie genti, al silenzio più profondo, quando è ancora possibile percepire echi della mitica Cassandra, intravedere bagliori di scimitarre saracene abbattersi sugli abitanti in fuga, sognare ritorni ad un arché misterioso, ad una genesi spinta indietro al di là del tempo, un tuffo nel grembo della Grande Madre. Nel costone del canale un eremita adattò a propria dimora un anfratto nella roccia viva spianandone le pareti interne per trasferirvi — sotto forma di affreschi e immagini visibili — la ricchezza del proprio mondo interiore, la freschezza di una religiosità tutta proiettata nella contemplazione di Dio ”Lunga circa tre metri, alta due ed altrettanto larga, su una parete della quale si intravedono ancora alcune figure di santi dalla testa aureolata” (1) (pag. 52): così scriveva vent’anni fa il compianto Aldo Simone, dolendosi del fatto che un sito così importante fosse rimasto inedito e addirittura ignorato dalla storiografia ufficiale. Oggi, purtroppo, a causa dell’assenza assoluta di interventi da parte delle Autorità ad hoc istituzionalmente preposte, sono scomparse persino le tracce degli affreschi, lasciando nel visitatore un senso di desolante rassegnazione. Eppure quella cripta ha una storia carica di vicende, non è una semplice grotta staccata da contesti di riferimento, bensì è parte di una fitta rete organizzativa elaborata e messa in essere dai B~1asiliani per amministrare su tutti i fronti — religioso, gerarchico, produttivo — l’intero territorio salentino e d’oltre Regione.
Ritornando al nostro argomento, diremo che un filo — sebbene indiretto — collegava numerose cripte e laure sparse nelle aperte campagne dell’antica Terra d’Otranto con uno dei monasteri basiliani più famosi e importanti del Meridione d’Italia, quello di 5. Nicola di Casole vicino ad Otranto. Fondato nel 1098-1099 dall’Abate Giuseppe grazie alle elargizioni del Normanno Boemondo I Principe di Taranto e di Antiochia e della madre Costanza, questo monastero per quattro secoli rappresentò l’unico vero faro luminoso della grecità nella nostra penisola, il luogo attraverso cui la tradizione della civiltà classico-bizantina dall’Oriente giungeva in Occidente e contestualmente il mondo latino poteva essere veicolato nei santuari dell’ortodossia.
Secoli prima che in Italia ed in Europa venissero fondate le Università, Casole — in virtù dei suoi monaci, Abati, di una ricchissima biblioteca e di uno scriptorium straordinario — funzionò come un moderno college all’inglese, garantendo gratuitamente vitto e alloggio a tutti i giovani che volevano coltivare le lettere greche. Per rendersi conto dell’eccezionalità dell’abbazia casolana basti pensare che mediamente questo monastero pagava alla Curia romana tasse annue pari a 200 formi, somma superiore a quelle pagate da tutti gli altri monasteri operanti in un’area che si spingeva fino a Grottaferrata (alle porte di Roma) e al cuore della Calabria. D’altronde i possedimenti del monastero casolano si estendevano in tutta la Puglia fino a Pescare, i suoi Abati erano tenuti in grandissima considerazione sia dai pontefici sia dagli imperatori d’Oriente, finché nel 1480 la furia devastante dei Turchi di Achmet Pascià si abbatté su Otranto e sul monastero facendo ovunque terra bruciata.
Anche nel Capo di Leuca, e più precisamente nel territorio di Salve, Casole esercitava una certa influenza, in forza della propria autorità
morale, non direttamente, ma indirettamente, per il tramite dell’abbazia di S. Maria del Mito in Tricase, cui il monastero casolano era profondamente legato. Per capire ciò occorre considerare un attimo la struttura organizzativa dei Brasiliani: come in una sorta di piramide, dall’abbazia autocefala si passava alla metochia, che si configurava come una delle tante succursali dell’abbazia, una casa monastica creata dal cenobio principale dal quale dipendeva direttamente. In questo senso la metochia non aveva un vero e proprio Abate, ma era guidata da un monaco incaricato dall’igumeno dell’Abbazia primaziale. Scendendo più in giù nella gerarchia, il gradino successivo era occupato dalla grancia, autentica fattoria coltivata dai monaci: per certi aspetti la grancia bizantina anticipava di mezzo millennio quell’organismo produttivo che in età rinascimentale avremmo conosciuto con il nome masseria. Dalla grancia si passava alla laura — forma mista di organizzazione del monachesimo orientale tra l’eremitica e la ce nobitica — e quindi alla cripta, l’ultima cellula del complesso organigramma proprio dell’universo monastico bizantino. Ebbene, nel territorio di Salve, oltre alla cripta eremitica del canale dei Fani, fu attiva durante il Tardo Medioevo la “grancia di S. Tommaso D’Aquino” situata al confine con il feudo di Morciano. Essa apparteneva all’Abbazia di S. Maria del Mito e persino nel 1639 è ancora possibile documentare questo fatto in un atto notarile, [...] legàmi che strada facendo si intrecciavano con altre maglie della medesima rete. Basti pensare che nel famoso Inventano compilato nel 1665 dal notaio Carlo Pasanisi all’uopo incaricato dal Cardinale Laurentiis (A.S.L.) figuravano, tra i beni del monastero di Casole, la chiesa di S. Andrea e di S. Maria in Gagliano, la chiesa di S. Maria della Scala in Alessano con 370 alberi di ulivo.[...]
Straordinaria fu, dunque, la plurisecolare stagione della civiltà bizantina in Terra d’Otranto, un lungo periodo in cui la concomitanza tra un’agricoltura basata essenzialmente sull’ulivicoltura, una fede austera che tutto esigeva dai suoi figli in cambio della salvezza eterna dell’anima, e una cultura che per il tramite della Patristica richiamava a nuova vita la classicità greco-romana, finì col garantire al Tallone d’Italia la sua ultima gloriosa pagina di storia.
Nello snodarsi di questa parabola, Salve può ben dire d’avere svolto un ruolo di grande rilievo.